LA GATA MORA
“Ambientazione in contrada Vaggimal,
ultimi decenni dell’ Ottocento,
territorio dell’allora Comune di Prun, ora di Sant’Anna d’Alfaedo (VR).”
Introduzione
Nella seconda metà dell’Ottocento fu rettore per oltre trent’anni nella chiesa di Vaggimal (la parrocchia era quella di Prun), don GioBatta Dal Corso, meglio noto come don Barbetta, nato nella vicina contrada di Giare il 21 dicembre 1819 e deceduto a Sant’Anna d’Alfaedo il 6 maggio 1902.
La tradizione orale, tuttora viva, lo connota brillantissimo e suadente predicatore, ma soprattutto personaggio dai grandi e straordinari poteri, che si manifestavano con predizioni, benedizioni o maledizioni miracolose e grandi lotte con il maligno, dalle quali usciva spesso malconcio ma sempre vincitore.
I racconti, molto coinvolgenti, che lo vedono protagonista, sono numerosi: noi scegliamo di narrare quello de “La Gata mora”, con l’avvertenza che la traduzione italiana della storia non rende certo giustizia all’ambiente contadino del tempo che lo ha generato, nelle sue connotazioni sociali ed economiche.
Il covolo
Sotto contrada Giardino (uno dei tre piccoli nuclei abitati che costituiscono il centro della frazione Vaggimal), si stende tuttora un ampio bosco, nel territorio degli antichi beni comuni, ricco di funghi e ciclamini, in una zona lussureggiante per la presenza sia di un vajo sia di una sorgente, che, scaturita nel bel mezzo di una parete rocciosa, si allarga poi anche in un anfratto, fino a formare una possa.
Poco lontano si apre maestoso un covolo (riparo sotto roccia), dove gli abitanti delle contrade, prima della costruzione delle malghe, portavano il loro latte a raffreddare.
Il covolo era stato attrezzato con masteloni (vasche rettangolari in legno, con superficie ampia e altezza scarsa) e il suo microclima favoriva un affioramento ottimale della panna, in modo che, con le successive lavorazioni, si otteneva in abbondanza burro di grande qualità.
Ma una mattina, al solito momento della scrematura, le “cope i è restè sute”: della panna non c’era nemmeno l’ombra.
Incominciarono le più elementari ricerche e i primi interrogativi.
La porta era stata chiusa a dovere?
Chi aveva pulito i masteloni lo aveva fatto con la necessaria cura?
Nelle stalle c’era forse qualche malattia passata inosservata?
I brachi (ragazzi), come talvolta poteva succedere, si erano magari divertiti a fare uno scherzo di assai cattivo gusto?
Non si trovò alcun appiglio e la meraviglia, la preoccupazione e poi la paura aumentarono quando il fatto si ripetè i giorni successivi.
Nelle contrade, a memoria d’uomo, non si era mai sentita una storia simile e una spiegazione non la si sapeva dare. Si decise così di far la guardia al covolo: la sera, dopo aver conferito il latte, i veci de la contrà (i notabili) si sarebbero fermati a sorvegliare.
La notte
La prima notte non successe nulla perché i guardiani si addormentarono, e così pure, nonostante i buoni propositi, la notte seguente.
Per il terzo tentativo si decise di mandare uomini più giovani e più vigorosi: si pensò subito a Bepone, allora nel fiore degli anni, la cui forza ed agilità lo facevano paragonare ad un gatto che si arrampica su una pianta e ad uno scoiattolo che salta tra i rami.
Bepone, insieme ad altri compagni era ben deciso a vegliare: la prima parte della notte trascorse tranquillamente, ma quando l’orologio del campanile della contrada incominciò a scandire la mezzanotte, si levò il vento, si spalancò la porta e, mentre il campanile ribatteva le ore, si udì all’interno del covolo, sopra i masteloni, come un fruscio, forse un uccello: fu un attimo, poi tutto finì e il bosco si riavvolse di profondo silenzio.
I contadini, un po’ increduli e un po’ smarriti, si ripromisero di non lasciarsi sorprendere la sera dopo. Si attrezzarono di bastoni, rastrelli e forche.
Bepone si armò di focolo (roncola), illuminarono la grotta con lanterne e lumini ad olio, cercarono di infondersi coraggio con l’aiuto di qualche bicchiere di vino e attesero la mezzanotte, decisi a tutto, di qualunque cosa si trattasse.
Quando si udirono i primi rintocchi della mezzanotte, sibilò il vento nel bosco e la porta del covolo fu scossa e si spalancò: tra il battere e il ribattere delle ore, improvvisamente si materializzò una gata mora e vi entrò fulminea.
Bepone si era appostato vicino alla soglia e la vide benissimo: era enorme, aveva pelo corto, nero e lucido come quello di una talpa e occhi di brace che ipnotizzavano.
Corse veloce sopra i masteloni e già si apprestava ad uscire quando Bepone, mentre gli altri erano rimasti immobili, come impietriti, preso el focolo, lo scagliò con violenza verso di lei.
La gatta riuscì a fuggire, ma appena fuori l’ingresso del covolo rimasero i ongei de na sata (unghie di una zampa), che cominciarono a sanguinare rosso fuoco, formando una piccola pozzanghera ribollente.
La notte fu penosa: al silenzio assoluto del bosco si contrapponevano in lontananza il miagolio dell’animale, lamentoso e straziante e lì vicino il sinistro sfrigolio del sangue ribollente, mentre tutto era avvolto nella tenebra più cupa perché era una notte di novilunio.
Spuntata finalmente l’alba, gli uomini uscirono; con l’aiuto di rami e foglie raccolsero i ongei della gatta, li gettarono nell’acqua del vajo, che al contatto sollevò una nuvoletta di vapore rosso, e con fatica tornarono al paese.
La benedizione
Raccontarono subito i fatti a don Barbetta, chiedendo lumi sul da farsi. Tutto il paese, prete in testa, si recò in processione al covolo; si pregò a lungo, il sacerdote benedisse più e più volte, assicurò che da quel momento in poi con la panna non ci sarebbe stato alcun problema, e poi tutti tornarono a casa.
La vita riprese normalmente, la panna tornò subito a riaffiorare nei masteloni e nessuno vide più la gata mora, solo il prete recriminava talvolta sul fatto che i so ongei, anziché sepolti, fossero stati gettati irrimediabilmente nell’acqua del vajo.
La storia fece il giro delle contrade vicine e lontane, tutti ne parlarono nelle case, nei filò, nelle poche osterie e poi, piano piano, se ne raccontò sempre meno, sempre meno, che quasi era dimenticata, finchè…
Finchè un bel giorno si presentarono in canonica a Vaggimal alcuni signori provenienti da contrada Ceve di Negrar: chiedevano l’intervento di don Barbetta perché una vecchia del loro paese, da parecchio tempo in fin di vita , potesse finalmente morire in pace.
Il prete assicurò la sua presenza, ma, con la scusa che ormai era anziano e non poteva viaggiare da solo, volle che Bepone lo accompagnasse: l’uomo accettò e partirono.
Giunsero in contrada Ceve a notte fatta. Il prete salì da solo in camera dell’ammalata, pregò, svolse i suoi riti e poi chiamò Bepone e gli ordinò di raggiungerlo per impartire anche lui la benedizione alla morente.
L’uomo si schermì più e più volte, fino a quando il prete sollevò leggermente le coperte del letto dalla parte dei piedi così che Bepone poté vedere che ad uno di essi mancavano parte delle dita e le unghie.
Impartì di cuore la benedizione alla donna: intanto il campanile rintoccava la mezzanotte, fuori si levava un po’ di vento e i vetri della finestra si spalancavano. Bepone si affacciò per guardar fuori, ma fuori non si vedeva nulla perché era una cupa notte di novilunio.
In visita
Il covolo leggendario che ha come protagonista ‘la gata mora’ esiste veramente, è denominato “Coalo del Gado” ed è raggiungibile abbastanza agevolmente a piedi, partendo da contrada Giardino, in una quindicina di minuti.
Dunque quando verrete a trovarci al Veja Adventure Park ricordatevi di visitare questa chicca (altre le trovate descritte qui sul nostro blog)
Anche l’ambiente circostante è meritevole di conoscenza, per la presenza di una pozza d’acqua perenne, alimentata da sorgente, di una piccola spluga, di un mulino (uno dei rari mulini di Sant’Anna d’Alfaedo) e dei resti dell’acquedotto che partendo proprio da questo punto, dopo un percorso di qualche chilometro, concorreva ad alimentare in località Spionca di Lugo, la prima centrale elettrica della zona che, sorta nel primo dopoguerra, ebbe lunga e gloriosa vita fino alla nazionalizzazione dell’energia elettrica.